Stamattina ho incontrato Elide. Lei è ciò che gli inglesi, con accuratezza lessicale, definirebbero acquaintance, cioè una conoscenza. Noi italiani, per una magnanima approssimazione, invece la chiamiamo amica.
Non abbiamo contatti frequenti ma ogni volta che ci incontriamo, per strada o in piscina, parliamo piacevolmente, e seppure per breve tempo, di cose profonde.
So bene perché me lo ha detto un’amica comune, che lei è stata operata da poco e che il rientro da Milano è stato doloroso e faticoso. Lei sa che io so e quindi le prime parole sono un po’ ingessate, come se fossimo costrette dalla camicia di forza dell’etichetta da non infrangere, quella della discrezione. Poi però non resisto e le chiedo “Come stai?”. Questa è una di quelle domande che, a seconda del tono con cui la poni, cambia l’aspettativa di chi la pone e la modalità di chi risponde.
Lei mi spiega che è ancora debole ma che presto tornerà al lavoro. Mi anticipa anche che dirà a tutti i colleghi che non vuole trattamenti speciali e che preferisce non parlare di ciò che è avvenuto e avverrà. Preferisce che almeno al lavoro la sua mente voli lontano, si prenda una pausa da tutto ciò che ruota intorno alla sua malattia. Vuole che il mondo, per qualche ora, diventi un prato di erba fresca dove poter correre a piedi nudi con grande sollievo.
Inizialmente resto sorpresa e mi dico che quel “divieto” varrà anche per me, pur non essendo una sua collega. Mi chiedo come mi comporterei io al posto suo e non so darmi una risposta. La teoria è sempre diversa dalla pratica.