Ricordo ancora la prima volta che io e mia sorella facemmo il prelievo di sangue. Avevamo cinque anni e ce lo fece nostro zio, il medico di famiglia. Della nostra famiglia, intendo. Ricordo ancora, a distanza di quarant’anni, che svenimmo tutte e due, e sia lui sia mia madre dovettero raccoglierci col cucchiaino. Tanto per dire, naturalmente.
L’unica cosa piacevole furono i dolci che mangiammo dopo, meritata ricompensa per la nostra “prima volta”. Il nostro inaugurale appuntamento con l’ago fu memorabile, ma non nel senso che avevo sperato.
Da allora a ogni prelievo mi ricordo quella scena che solo adesso mi fa tanto ridere. A ripensarci dev’essere stato uno spettacolo: noi che svenivamo una a destra e una a sinistra, come due prime donne nel gran finale di una tragedia.
E dopo che di analisi, per la mia malattia, ne ho fatte tante, mi ritrovo a tarare la bilancia del dolore. Allora mi sembrava che portasse un peso enorme, insostenibile. E forse lo era per una bimbetta di cinque anni. Oggi convivo pacificamente con quel buchino sul braccio, che ho trasformato in un piacevole appuntamento con il mio analista.