Ricordo ancora la faccia del medico quando mi ha dato la notizia. I suoi muscoli facciali erano tesi, e lo diventavano ancora di più quanto più si sforzava di apparire calmo e sereno. Immagino cosa stesse provando. Non so spiegare perché, ma in quel preciso momento mi sono sentita più forte di lui, che vedevo vulnerabile e in balia dell’onda emotiva di quell’evento che si era ripetuto e si sarebbe ripetuto innumerevoli volte.
Ora eravamo solo due esseri umani l’uno di fronte all’altro, che avevano in comune un nemico contro cui lottare e, possibilmente, da sconfiggere. Solo allora mi sono soffermata a pensare quanto possa soffrire un medico nel dover comunicare a un essere umano che forse la sua ora è arrivata. Immagino quanto sforzo compia nello scegliere le parole più adatte, nel non lasciarsi andare a espressioni di abbattimento, e al tempo stesso di essere concreto e professionale.
E ogni volta che andrò da lui, per verificare i progressi o i regressi della malattia penserò a quanto sarà difficile anche per lui quell’incontro, specialmente se non porterà a nessuna buona notizia.
Ho deciso che mi dedicherò anche a lui, sforzandomi di rendere più sopportabili i nostri incontri e perché non si senta solo contro tutti.
Immagino quanto sia gravoso il fardello dei malati e delle malattie, quanto sia duro lottare, e quanto sia ancora più duro ammettere di dover essere sconfitti. Lui che ha dedicato anni di studi per curare e guarire, come me, non è pronto ad accettare di doversi arrendere.